La vela al terzo
La principale vela in uso in tutto l’Alto Adriatico fu la vela al terzo, di forma trapezoidale e tesa mediante un pennone superiore ed uno inferiore.
La denominazione di vela al terzo deriva dalle dimensioni della porzione di vela che sta davanti all’albero, che è appunto un terzo rispetto a quella che sta dietro.
La vela al terzo è il risultato di una evoluzione e di un affinamento secolare, che inizia tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento.
Uomini, donne, bambini di mare
Si è abituati a dire “uomo di mare”, ma in realtà, insieme agli uomini, la vita del mare ha sempre coinvolto tutta la famiglia, tanto che sarebbe meglio parlare anche di donne e di bambini di mare.
Si andava a piedi nudi, non c’era tempo per giocare, non si andava a scuola, si lavorava per molte ore al giorno, si stava sotto padrone o il padrone era il padre.
Era un mondo insieme povero e ricco, di miseria e umanità. Poteva donare fantasie e incantamenti e l’ignoranza era spesso virtù e sapienza di vita. Veniva trasmesso ai bambini un mestiere che richiedeva grande competenza e abilità: la capacità di riconoscere i segni del tempo, i momenti e i luoghi migliori per calare le reti, saper fare i nodi e portare la barca, riconoscere i pesci, resistere alla fatica e alla sorte con carattere e volontà.
Questo generava identità, senso di appartenenza, e l’orgoglio del saper fare e del saper essere.”
Dal libro-catalogo della mostra “Zughè, lavurè”, a cura di Elisa Mazzoli e Roberto Papetti, 2010
La vela al terzo: decorazione e simboli
La tintura aveva anche lo scopo generico di preservare il tessuto delle vele; tuttavia, è indubbio che la funzione prevalente – conseguita attraverso i colori, la disposizione secondo schemi tipici (es. il gallone, la tovaglia, ecc.), l’uso di simboli – fu essenzialmente comunicativa, dove ben presto alle motivazioni pratiche si unirono significati antropologici e sociali che non è eccessivo definire come “araldica marinara”.
L’identificazione delle vele era importante in mare aperto, quando serviva a imbarcazioni allora prive di qualunque altro sistema di comunicazione per rendersi visibili a distanze che, sia pure limitate (qualche miglio, con visibilità ottimale), erano sufficienti all’interno di un mare “piccolo” qual’è l’Adriatico e sulla base di indicazioni sommarie di posizione.
La valenza distintiva della propria vela doveva essere molto sentita in un ambiente sociale popolare, ma caratterizzato da un fortissimo orgoglio, quale era ed è tuttora quello dei pescatori: veri “cavalieri” del mare abituati a contare solo sulle loro forze e sul loro coraggio.
Il trabaccolo
Il trabaccolo compare nel medio Adriatico nella seconda metà del XVII secolo: è il risultato dell’evoluzione delle imbarcazioni da trasporto a due alberi a vele quadre e latine, tipiche del periodo rinascimentale, che nel corso del Cinquecento e del Seicento acquisirono sistemi costruttivi più perfezionati (è visibile all’interno il sistema di chiglia, paramezzale, ordinate, bagli e serrette). Nel corso dei suoi tre secoli di vita, il trabaccolo gradualmente sostituì, soppiantandoli, molti tipi di imbarcazioni anche di grandi dimensioni documentate in Adriatico fino alla seconda metà dell’Ottocento: il pièlago, la marsiliàna, il tartanòne e altre, portando ad una sostanziale unificazione dei tipi medio-grandi in tutto l’Adriatico. Lo troviamo quindi, con poche varianti, da Trieste a Venezia, lungo la costa dalmata fino all’Albania e quella italiana fino alla Puglia. Tra le due sponde vi è stato un contatto continuo di costruttori e di traffici, che hanno contribuito a uniformare la costruzione e la manovra del trabaccolo.
Il bragozzo
Il bragozzo è la tipica barca chioggiotta, con centri di costruzione nella Laguna Veneta.
Si tratta del migliore adattamento della barca a fondo piatto di origine lagunare alla navigazione marittima: sono riconoscibili dal fondo piatto.
Navigare con gli occhi
Osservare la prua ampia e ricurva di un trabaccolo dell’Adriatico (la “prua scudata”, per lo scrittore Giovanni Comisso; “a petto d’anatra” nel gergo della gente di mare) significa chiedersi il perché di quei grandi occhi in rilievo, dalla forma caratteristica e il colore vivo. Una domanda che evoca d’un tratto il mare delle origini, gli scafi arcaici che lo solcavano e gli uomini che con essi navigavano.
Gli stessi occhi dipinti a prua ci guardano da un bassorilievo egiziano di 4.000 anni fa, da un vaso greco del VII secolo a.C., da un mosaico romano dell’età imperiale: ci dicono che una chiglia solida, molta esperienza e determinazione non sono mai stati sufficienti per chi affrontava il mare. Quando la tecnica aveva fatto la sua parte, restava ancora il bisogno di percepire la barca come una cosa viva e amica, capace di trovare da sola la sua rotta in mezzo ai pericoli della navigazione.
Un bisogno così primordiale è forse più antico di ogni religione. Appartiene piuttosto a una concezione magica del mondo, dove tutto vive, vuole, è amico o nemico.